Avevano parlato tutti. Mancava solo lui. E nell'attesa che ha preceduto il suo intervento, l'unghia del mio indice destro è caduta sul foglio.
L'Amministratore delegato stava per illustrare motivi di fondo, potenzialità e obiettivi economici di quello strategico investimento e la mia unghia era lì, sul foglio. L'ho osservata per un istante. Poi, scostandola con la punta della penna, l'ho fatta scivolare a terra. Credevo fosse finita lì. Il mio indice destro era privo dell'unghia, ma questo non mi avrebbe certo impedito di seguire quanto l'Amministratore delegato si accingeva a comunicare.
Ero davvero convinto che fosse finita lì, e lo sono stato sino a quando l'indice non ha cominciato a sanguinare. La macchia vermiglia che pian piano si allargava sul foglio mi ha costretto a smettere di scrivere. Indeciso sul da farsi, mi sono guardato intorno. Incrociando l'occhiata interrogativa del mio vicino, ho abbozzato un sorriso di circostanza. Ho anche mosso impercettibilmente la testa per sottolineare che non doveva preoccuparsi, che non era nulla, un'inezia, davvero una sciocchezza. Visto che le mie mute rassicurazioni non sembravano averlo tranquillizzato, ho cercato di essere più convincente con una noncurante alzata di spalle e un vago cenno della mano. Ed è stato allora che ho sentito cedere anche il polso destro. Non mi è restato altro da fare che fingere un improvvisa fitta e afferrare il polso con la mano sinistra. Riuscito ad evitare che la mano destra cadesse irrimediabilmente ai miei piedi, mi sono alzato. Incalzato dal crescente stupore del mio vicino ho guadagnato l'uscita senza neanche poter balbettare una scusa perché i miei quattro incisivi, e forse qualche molare, avevano cominciato a traballare sensibilmente. Anche se nel frattempo avevo perso altre due unghie, ho varcato sorridendo la porta della sala congressi e, confuso tra la gente, mi sono guardato intorno alla ricerca di un posto dove potermi rifugiare.
Col timore di non riuscire a tenermi unito ancora a lungo, mi sono precipitato in direzione della piccola freccia luminosa che indicava la toilette. Imboccato un lungo corridoio ho voltato prima a destra e poi a sinistra e, dopo aver urtato un'anziana signora, sono finalmente riuscito a conquistare uno dei bagni liberi.
Non è niente, mi sono detto chiudendo la porta alle mie spalle. Non è veramente niente, mi sono ripetuto sfilando il tubetto di colla dalla tasca della giacca. Ne portavo sempre uno con me. In caso di cedimenti imprevisti. Un primo bilancio delle mie condizioni ha confermato che il polso, anche se completamente disarticolato, non si era staccato dal braccio come era successo la notte precedente, rendendo tutto più facile.
Spalmata un'abbondante dose di colla intorno al polso, ho appoggiato la mano contro la parete e, tenendo il braccio ben teso, ho spinto con tutte le mie forze. Con uno schiocco sommesso il polso è rientrato nell'articolazione e dopo qualche minuto la pelle era già asciutta. Anche se con un aria posticcia la mano stava al suo posto. Rigida, completamente inerme, ma indiscutibilmente normale, una mano come tante se ne vedono in giro. Le unghie purtroppo erano andate perse. Ho spalmato comunque un sottile strato di colla sulle ferite perché l'effetto cicatrizzante di quel miracoloso prodotto era, oltre che scientificamente provato, anche immediato. I denti non erano un problema, non lo sono mai stato. E' bastato estrarli delicatamente dalle gengive, bagnarne le radici con un goccio di colla e, una volta risistemati al loro posto, mordere leggermente il fazzoletto.
Quando sono rientrato nella sala congressi, l'Amministratore delegato stava già parlando. Accompagnato dall'insistente sguardo del mio vicino ho raggiunto il mio posto. Impermeabile al mio sorriso di ritrovata calma, ha continuato a fissarmi anche quando, accartocciato il foglio macchiato di sangue, ho cominciato a scrivere con la sinistra, ancora intatta e perfettamente funzionale. Sono ambidestro, lo sono sempre stato. Una vera fortuna, anche perché l'Amministratore delegato era ormai arrivato alle conclusioni.
Cinque minuti. Tanto sono durate le sue riflessioni conclusive. Cinque interminabili minuti. Più di una volta mi è sembrato di leggere nelle occhiate interrogative di alcuni dei presenti un richiamo a future spiegazioni. E se quelle occhiate si facevano più insistenti, io guardavo altrove toccando con malcelata indifferenza le orecchie o i pochi capelli che ancora mi rimanevano per essere sicuro che fossero ancora al loro posto. Quando dopo una lunga pausa, l’Amministratore delegato ha fissato i suoi occhi nei miei non ho potuto fare a meno di sfiorarmi il naso, già tremante per il terrore di sentirlo cadere. E in tutto quel tempo ho continuato a scrivere, non ho mai smesso di scrivere sino a quando tutti i presenti hanno rivolto all'Amministratore delegato un prolungato e caloroso applauso.
Ed è stato durante quell'applauso che sono stato testimone, attonito e impotente, dell'inatteso e imbarazzante precipitare della situazione. Molte delle persone sedute in prima fila avevano perso le braccia, alcune della seconda si sono scompostamente afflosciate sulle poltrone mentre, in un angolo, altre due si sorreggevano a vicenda perché le loro gambe, la sinistra per uno la destra per l'altro, erano finite a terra. A una signora che cercava di allontanarsi lungo il corridoio centrale sono caduti contemporaneamente il naso e un braccio. I pochi che potevano ancora ostentare la tenuta delle loro membra si guardavano tra loro temendo forse un imminente sfacelo.
E quando, superato il primo momento di imbarazzo, tutti si davano da fare per cercare di risolvere la situazione, il sonoro rotolare a terra della testa dell'Amministratore delegato ha annunciato l'irreparabile.
L’irreparabile © 1995 Carlo Porcedda
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